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Semestre filtro: cronaca di un fallimento

  • Alessandro Borlizzi
  • 3 giorni fa
  • Tempo di lettura: 11 min

Ben presto dimenticata la retorica del "libera tutti" e del merito, i sospetti hanno trovato conferma: il nuovo accesso a Medicina si è rivelato un fallimento tecnico e, soprattutto, un pirateggio camuffato da dolce crociera. Quello che doveva essere un sistema più equo si è trasformato in una "tassa sulla speranza" scaricata sulle famiglie: quasi 90 milioni di indotto tra affitti, corsi privati e tasse universitarie. Mentre gli studenti affrontano un percorso a ostacoli con tassi di successo irrisori (sotto il 15%), a festeggiare davvero sono le università private e il business dei ricorsi legali.

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La riforma dell'accesso a Medicina si è rivelata un fallimento e quella che era stata annunciata come una sedicente “rivoluzione” ha fatto irruzione nel mondo della realtà scontrandosi in un urto che ha infranto il patto di ogni promessa. 


Una cesura completa da un passato di iniquità, di burocrazia, di valichi senza contesto: erano questi i traguardi prospettatati dal passo che si era compiuto tra le fila entusiaste della maggioranza lo scorso 14 marzo, quando la Camera ha approvato in via definita la risoluzione legislativa che avrebbe riformato le modalità di accesso alla facoltà di Medicina, portando sul patibolo le reliquie controverse del vecchio test di ingresso.


Le parole che la ministra Anna Maria Bernini sta spargendo in questi giorni sembrano sempre più inscenare un teatrino con cui il vertice del MUR tenta di giocare a rimpiattino tra i tentativi, talvolta zelanti, talvolta acrobatici, di salvaguardare la bontà della percezione sul proprio operato, e su quello della commissione di tecnici che questa primavera ha posto sul tavolo legislativo l’abbozzo – mai cesellato – della nuova riforma. La versione decantata pubblicamente dal ministero e dai suoi portavoce sembra sgretolarsi giorno dopo giorno, man mano che l’evidenza del fallimento si fa strada tra le coscienze. 


La selezione iniziale era divenuta negli ultimi anni oggetto di critiche crescenti e reiterate, e vittima di movimentazioni mediatiche che ne denunciavano l’astrusità e ne sottolineavano le intenzioni tendenziose. Intenzioni che erano oramai cristallizzate in una sovrastruttura formale a testimonianza di quanto la denaturazione del numero chiuso - istituito a livello nazionale nel lontano 1999 - avesse reso fuori luogo le modalità di questo argine. I tentativi di potare la pletora medica che ogni anno affluiva alle porte delle università hanno contribuito a rendere l’accesso alla formazione medico-sanitaria un fatto sempre più elitario, tanto da costituirsi come antonomasia di un traguardo che, tuttavia, ha fatto presto a decadere nella contesa diatriba: “merito o privilegio?”.


Che una selezione si opponga alla fiumana di aspirazioni che guardano alla professione medica con desiderio febbrile è un male che si è rivelato purtroppo necessario già quando, all’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso, numerosi atenei italiani iniziarono a scontrarsi con le difficoltà asfissianti dettate dal sovrannumero di studenti. Gli impianti logistici si mostrarono ben presto insufficienti per supportare una didattica e una formazione che, parallelamente, si articolava seguendo schemi via via più rigidi e complessi, per assecondare le linee guida europee di contemporanea e progressiva promulgazione. Una serie, cioè, di ingorghi viscosi e di attriti che massimizzavano la propria ostruzione in quella transizione dal compimento della laurea magistrale all’esordio del percorso specialistico, impedendo, di fatto, un processo di professionalizzazione lineare ed efficace: il surplus di laureati, in grave eccedenza rispetto al fabbisogno del sistema sanitario, si impantanava nel mezzo della limitata disponibilità di posti destinati ai borsisti specializzandi.


Ma con la decostruzione graduale della nostra sanità, e una incombente – ma, uscendo degna da ogni confronto, accomodante - forma di “precariato” che si prospettava in grado di attentare alla posizione da sempre privilegiata della professione medica, il settore medico ha accusato una forte deflazione delle capacità di assolvere alla propria funzione. E, con esso, l’intera sanità, tenuta in piedi anche – e soprattutto - da una compagine fondamentale di professionisti altamente specializzati, quali infermieri, tecnici, e tutte le mansioni che afferiscono alla salvaguardia della salute individuale e collettiva, ha iniziato a lamentare i sintomi di un declino cui ancora assistiamo. I numeri che oggi quantificano le sue condizioni sono impietosi (mancano all’appello dei registri tra i 65.000 e i 70.000 infermieri, più di 10.000 medici), ma è bene guardarsi dalla maldestra inclinazione di raggomitolare le ragioni della nostra “ecatombe” sanitaria in una matassa informe di facili, furbe e fraudolente conclusioni. Le ragioni sottese a tale ferita sono infatti profondamente diverse, tanto che le forze che alimentano le forbici numeriche risultano essere perfino antitetiche, divergendo dalla semplice carenza di specializzazione professionale. Ora, se è vero che il personale infermieristico è mutilato da una penuria materiale, causata dai numeri esigui che alimentano le facoltà, al contrario, il fiumiciattolo più o meno costante di laureandi in Medicina continua a defluire in modo lento e impacciato attraverso la condotta di accesso alla specializzazione: oggi, come ieri, numerosi medici generali non specializzati rimangono esclusi da una completa professionalizzazione. Non è intento di questo articolo abbandonarsi alle furie generaliste che inanellano semplificazioni e approssimazioni di questo fenomeno tanto complesso, né, tantomeno, ci proponiamo l’obiettivo di porre sotto una lente di ingrandimento le dinamiche labirintiche che muovono l’economia del nostro sistema. Ma, ritornando a oggettivare la natura ultima di questa riforma, non si può esimere una corretta analisi dal valutare e sancire gli esiti disastrosi del nuovo concetto.


Ovunque la prospettiva volga lo sguardo, che sia in senso assoluto, o, e ancora più impietosamente, in senso relativo con un passato già di suo non troppo decoroso, non può esonerare lo sguardo dall’osservare i tentacoli della politica agire in presa sul timone di questa manovra. Appare, infatti, evidente che la riforma ministeriale sia stato un atto eminentemente politico, partorito per assecondare una chiara e precisa narrazione. Chiariamoci: problematizzare il vecchio sistema di ammissione, il test di ingresso, è un’azione che qualsiasi forma di pensiero intellettualmente onesto ha il dovere di compiere. Le ragioni alla base della sua contestazione sono numerose, e appurarle è semplicemente una ridondanza. Ma non si può, in ogni caso, non ammettere, con la medesima onestà e franchezza, che quanto costruito in questi pochi mesi costituisca un sistema di vari ordini di grandezza più svantaggioso del precedente. Risulta ovvio che ragionando pragmaticamente, e quindi discriminando tutte le utopiche strutture organizzative che renderebbero in modo desiderabile ogni iniquità o ostacolo niente di più che un lontano ricordo, bisogni accettare, in un modo o nell’altro, l’esistenza di un compromesso. Tale compromesso dovrebbe però risultare da un confronto ponderato tra le necessità degli studenti, che intendono approcciarsi al percorso universitario, e quindi in modo determinante anche al loro futuro, e le limitate possibilità del sistema, che per una serie sconfinata di ragioni non ha purtroppo la possibilità di elargire istruzione alla totalità degli studenti che la desidererebbero, ottenendo così un esito ragionevole che sia prodotto di tali - e SOLO di tali - fattori.


Quanto fatto si mostra invece il frutto di una scelta fortemente guidata dalla volontà di trionfare a ogni costo sull’elemento del vecchio sistema che forse più di tutti generava il turbine di polemiche, figurando come cancello invalicabile per la resurrezione del sistema universitario italiano: il numero chiuso.

L’idea partorita dal Ministero ha infatti tentato di vendere a ottimo mercato l’illusione che si fosse finalmente dato adito a un “libera tutti”, consentendo il libero accesso a un “semestre” di formazione e di didattica che avrebbe costituito l’oggetto di valutazione di un “filtro” selettivo: tre esami di profitto, elargiti nella languida forma di una farsa a crocette, valevoli per l’accesso a una graduatoria calcolata su base nazionale. Nasce così il “semestre filtro”, dal grembo di una politica che ha come cifra di intenzione non la lungimiranza, ma l’asservimento fazioso all’ideologia e all’interesse sempre più elitario. Che il numero chiuso fosse ancora lì a sbarrare le porte delle università era parso immediatamente evidente a tutti, ma dove si instauri la rivoluzione, dove si annidi la rinascita dell’equità e del merito – tutti valori sacralmente protetti dalle annunciate intenzioni del ministero – Anna Maria Bernini deve ancora renderlo chiaro.


È stata venduta agli studenti l’illusione che le vere porte delle università si sarebbero aperte a tutti, accogliendo decine di migliaia di essi all’interno di un ambiente che li avrebbe guidati in un percorso di preparazione; che, alla fine, solo il lavoro svolto nel contesto di questo percorso sarebbe stato l’oggetto della selezione, ora più equa ed equilibrata. L’illusione che essi sarebbero stati parte attiva del contesto universitario, che avrebbero in quei pochi mesi assaporato l’odore differente del nuovo mondo, e quindi iniziati, per quanto con effetto provvisorio, ad un vero ambiente accademico. È stata rifilata loro la speranza che, ora, la vicenda biografica e il percorso pregresso di istruzione sarebbero stati entità discriminanti più lasse, in quanto la pressione selettiva è adesso spostata più in là della preparazione superiore. Tutti buoni propositi rivelatisi nient’altri che prestigi illusori e, forse fraudolentemente, impacchettati all’interno di un racconto fuorviante di ciò che sarebbe stato il semestre filtro.


Qual è, quindi, il valore del computo finale della nuova risoluzione?


A raccontarcelo sono i freschi esiti dei tre esami di profitto che lo scorso 20 novembre si sono tenuti nei 44 atenei statali che offrono i percorsi universitari di Medicina e Chirurgia, Odontoiatria e Veterinaria. Dei circa 82.000 iscritti globalmente alle tre facoltà (di cui 62.140 per Medicina e Chirurgia, 8.450 per Odontoiatria, 11.200 per Veterinaria), solamente 12.045 studenti hanno riscontrato un successo, pari al 14,7% del totale. Il nuovo sistema prevede, infatti, che si possa accedere alla graduatoria nazionale, sulla base della quale verranno assegnati gli studenti alle varie sedi universitarie di preferenza, solamente in seguito al conseguimento di una promozione (valutazione >18) in tutte e tre le discipline: Biologia, Chimica e Fisica. Ciò vuol dire, senza scomodare pindariche conclusioni, che allo stato attuale il nuovo sistema non è ancora riuscito a emettere un numero di idonei congruo alla quantità di posti liberi. Per la facoltà di Medicina, il secondo appello, che si è svolto questa mattina in un clima di forte tensione e rimostranza, avrà il compito di ricucire un margine ampissimo di 11.200 posti necessari per saturare il fabbisogno stabilito per il nuovo ciclo di laurea.


La strage commessa dalla nuova modalità di selezione è, tuttavia, solo il sintomo apicale di un sistema avulso, che ha iniziato a marcire fin dalle sue primarie intenzioni. Raccontare e descrivere lo sconforto, l’incertezza, il senso di impotenza che hanno serpeggiato tra gli studenti coinvolti, funestando l’entusiasmo di approcciarsi al futuro, non è un compito facile. E spesso l’autentica e genuina compartecipazione umana a una frustrazione del tutto legittima si diluisce tra le polemiche e le ridondanze dell’opinione. Eppure, è proprio in ciò che la “crudeltà” perversa di questo sistema trae nutrimento. L’indignazione, quella rabbia controllata che alimenta le ostilità contro le ingiustizie, più che riversarsi contro il fallimento tecnico di tale intuizione, dovrebbe anzitutto e in modo ancor più partecipato scagliarsi contro il cinismo e la spregiudicatezza di questa politica che si dispone per barattare il futuro dei giovani con un profittevole rendiconto, comunicativo ed economico. Catapultati in un mondo alieno, i giovani studenti si trovano a fronteggiare, privi di ogni forma di propriocezione, la tempesta della novità, del disancoraggio, dell’allontanamento dai visi amici, privati del supporto di una stabilità o della promessa di una certezza, in cui affrontare una parentesi per molti estenuante e logorante di impegno frenetico e ossessivo. La paura di fallire, lo pensano in molti, è alta, e l’angoscia di non capitalizzare, in un mondo di azzardi e di repentine occasioni, la possibilità offerta a una piccola parte del proprio futuro avvilisce gli animi e le passioni. E vedere da tutto ciò cavata la manovra di un grande guadagno, alimenta nient’altro che la sfiducia in una società, prima ancora che in un sistema politico, che si rende sciacalla di una grande, fitta e inestricabile trama di interessi.


Con un gesto un po’ più accorto, diventa infatti molto facile scacciare da dietro il sipario delle buone intenzioni i veri proventi di questa riforma. Secondo le elaborazioni basate sui dati di sbarramento recentemente provenuti e sui costi della vita rilevati dalle associazioni studentesche (UDU, Federconsumatori), circa 90 milioni di indotto complessivo sono stati la somma accolta all’interno delle casse avide dello Stato e degli esercenti che lo coadiuvano nell’elargire le possibilità d’istruzione, sborsati da famiglie che hanno dovuto sostenere mediamente – e con le inevitabili approssimazioni – circa €1.050 per ogni studente che abbia tentato di approcciarsi al semestre filtro. In effetti, tra la media di €400 per gli studenti in sede, e quella di €2.500 per i fuorisede, non si può smentire il fatto che il nuovo sistema ha costituito un’ottima fonte di ricavo. Non solo per gli atenei, che hanno incassato per ogni iscritto, a eccezione di quanti fossero esonerati per reddito, una tassa di €250 - a fronte del costo di €100 che precedentemente bisognava sostenere per effettuare il test di ingresso - ma anche e soprattutto per quell’apparato speculativo che gravita attorno alla possibilità di lucrare sui bisogni accessori necessari per l’esercizio adeguato del “diritto” allo studio. Affitti, utenze, manualistica, a cui si aggiungono le immortali e sempiterne promesse salvifiche di quanti elargiscono corsi intensivi di preparazione alle prove di ingresso – e che, ricordiamo, erano tra quanto il ministero si prospettasse di sopprimere – hanno articolato un circolo monetario che era ovvio allettasse i sollazzi degli speculatori. Una lievitazione del 1000% rispetto a ciò che era in grado di assicurare il vecchio sistema, e che ha trasformato un diritto costituzionalmente inalienabile in una tassa sulla speranza.  Il 72% di tali contribuenti si ritroverà, in effetti, ad aver sospinto un meccanismo di cui non potrà giovare i frutti.

 

Categoria di spesa

Chi incassa

Importo stimato

Affitti e utenze

Proprietari immobiliari

~ 60,1 Milioni €

Tasse universitarie

Stato / Atenei

~ 12,3 Milioni €

Libri e manuali

Case editrici

~ 7,5 Milioni €

Corsi/Ripetizioni

Privati / Società

~ 6,1 Milioni €

TOTALE GENERALE

Giro d'affari complessivo

~ 86 Milioni €

VECCHIO SISTEMA (test unico)

NUOVO SISTEMA (studente in sede)

NUOVO SISTEMA (fuorisede)

100 € (Costo fisso)

~ 430 € (+330%)

~ 2.680 € (+2580%)

Esito immediato

Esito dopo 3 mesi

Esito dopo 3 mesi

Ed è qui che ci invade dirimpetto l’amletica questione del merito o del privilegio.


Perché mentre a fare spese delle scelleratezze sono i giovani che tentano di sopravvivere a queste efferate sforbiciate, a gioire, profittando del baratro di incertezza e inconcludenza, sono gli atenei privati che non hanno perso occasione di capitalizzare dall’inaccessibilità del nuovo sistema, offrendo a cifre particolarmente remunerative posti all’interno delle proprie facoltà. Anche qui i guadagni sono esorbitanti: si parla di circa 75,1 milioni di euro, riferiti a quanto incassato dalle università private per l’accesso al test di ingresso e il pagamento della retta del primo anno di corso. Si tratta, nella pratica, di una fuga dal caos a bordo di una lussuosa limousine, che trasporta attraverso l’agio di una strada ben meno trafficata, dove la competizione e il rischio vengono ammortizzati, talvolta a tal punto da rendere l’orgoglio cospicuo del conto in banca l’unico vero e sincero criterio di selezione. Perché anche il merito alle volte ha, evidentemente, un suo costo.


Tra i legni già avvizziti di questa cornice, al di là dell’ennesimo tentativo di destrutturazione di un sistema statale d’eccellenza, quello universitario, vanno, infine, a dipingersi ancora una volta le dichiarazioni della ministra Anna Maria Bernini che, riguardo all’evocazione di uno scandalo mediatico scaturito dalle testimonianze e dalle prove di numerose infrazioni commesse lo scorso 20 novembre durante lo svolgimento degli esami, tenta di edulcorare la gravità dei fatti avvenuti e vendere aria esausta ai poveri studenti già asfissiati dall’inconcludenza di questo sistema. A loro supporto si sono celermente schierate le associazioni studentesche che hanno provveduto ad avviare, in collaborazione con alcuni avvocati, reclami collettivi e intentare dei ricorsi già organizzati per il mese di gennaio, quando – il 14 – verranno promulgate le graduatorie nazionali. A sorreggere le accuse vi sono numerose criticità che i ricorsi e i reclami intendono sottolineare e porre al vaglio del giudizio dei Tribunali Amministrativi. Iniziando dall’ambiguità dello status giuridico dello studente del semestre filtro, passando per la denuncia di una violazione della par condicio e della regolarità concorsuale a causa delle infrazioni commesse, fino all’attacco alla natura strutturale della riforma, gli studi legali stanno cavalcando l’onda del fervore per accalappiare la rabbia degli studenti e trasformarla in proventi, in cambio di un ricorso collettivo intavolato che promette loro di strappare, in guisa di miracolo, un ingresso in sovrannumero. E, qui, ancora una volta, ad avere la meglio sarà lo squalo con la bocca più grossa.


Sembra, tutto questo, e appare in forma tutt’altro che celata, il risultato dell’egemonia di un paradigma tecno-centrico che oramai imperversa senza sosta né ritegno. È la vittoria somma della tecnocrazia, di un sistema oramai asservito ai fini dell’efficienza che fa dell’istruzione un suddito agguerrito, un aguzzino spietato che subordina gli umani ai rintocchi dei propri meccanismi. E della Scuola, quella con la “S” maiuscola – si guardi bene dall’intenderla nella sua corretta accezione – che si pone a misura degli studenti, al servizio delle loro vocazioni, della Scuola che modella e ragguaglia la realtà alle dimensioni dei loro sogni, di essa non rimane nient’altro che una sbiadita fotografia.

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