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Il nuovo fascismo secondo Pasolini: ieri la TV, oggi i social

  • Carla Prontera
  • 28 mag
  • Tempo di lettura: 3 min

Cinquant’anni dopo la sua morte, il pensiero di Pasolini torna a interrogarci: denuncia del consumismo, omologazione culturale e potere mediatico in una società che non ha mai voluto davvero ascoltarlo.




Il 2 novembre di quest’anno ricorre il cinquantesimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini, intellettuale scomodo e controverso, le cui idee — ben oltre i limiti della società del suo tempo — potrebbero aver contribuito alla sua tragica fine.

Intellettuale inquieto, poeta corsaro, voce scomoda e profetica: Pier Paolo Pasolini continua a parlarci, con parole sempre più attuali, su un’Italia che non ha mai davvero voluto ascoltarlo.

Coinvolto in scandali legati a prese di posizione anticonformiste e all’omosessualità, Pasolini venne brutalmente ucciso in circostanze ancora non chiare. Durante la guerra Pasolini maturò sentimenti antifascisti per poi, dopo la Liberazione, militare attivamente nel partito comunista. Nel 1949 scoppiò lo scandalo che lo travolgerà per il resto della sua vita: accusato di corruzione di minori e di atti osceni in luogo pubblico, è costretto a rifugiarsi a Rebibbia dove, povero e senza lavoro, sperimentò direttamente la marginalità urbana, a contatto con i borgatari, che diventeranno i principali protagonisti dei suoi romanzi e dei suoi film. Nel 1960 avviene la svolta del cinema, conscio dell’impossibilità di fare letteratura, evidentemente incapace di esprimere i bisogni della società di massa, ma fiducioso nella possibilità che il cinema e il giornalismo possano mantenere vivo ancora per un po’ quel divario tra la dimensione pubblica, dominata dalla cultura di massa, e quella privata, prima della perdita di ogni unicità a causa dell’affermazione ineludibile dell’omologazione culturale.

Pasolini insegna a guardare con lucidità il cambiamento, che comporta sempre un guadagno e una perdita, di cui dobbiamo essere consapevoli. Egli osserva gli spaventosi effetti del consumismo sugli individui, che consistono nell’annientamento dell’«arcaicità pluralistica», ovvero del particolarismo delle diverse culture, soprattutto popolari (per esempio la cultura contadina), presenti nella società preindustriale. Il «popolo» perde il legame con le proprie radici, e si trasforma in consumatore. Se da una parte se ne ricava un vantaggio materiale, dall’altra si diventa spaventosamente poveri di valori, ideali e identità. Il “miracolo economico” che ebbe inizio nel secondo dopoguerra è, in realtà, uno sviluppo distorto, consistente nell’accumulo di beni superflui, che «rendono superflua la vita». La nuova ideologia edonistica del consumo di massa sembra portare al benessere o, meglio, alla «salvezza dalla miseria», ma materialmente non è in grado di realizzarlo. Gli stati d’animo collettivi sono ormai frustrazione e ansia nevrotica.

Con la rivoluzione dei mass media, è iniziata l’era del «nuovo fascismo», ancora più autoritaria del fascismo storico, il quale si contentava di un’adesione ideologica e politica delle masse, e non di una subdola seduzione che occultava forme di persuasione che cambiano il vissuto, la cultura e la mentalità, riducendoli ad un unico modo di pensare, che segue la logica capitalistica di produzione/consumo.

Nel giudizio di Pasolini è il popolo che si borghesizza, assumendo passivamente i valori e i modelli della borghesia, rinunciando così a ogni antagonismo di classe, a ogni identità propria. Il carattere antropologico della mutazione sta nella sua capacità di incidere su elementi comportamentali radicati in lunghissimi tempi storici: a cambiare sono il modo di vivere, di vestire, di gesticolare, di parlare. Se prima i sottoproletari non si vergognavano della propria ignoranza, anzi erano fieri dell’autenticità del proprio schema culturale di analfabeti in possesso però del «mistero della realtà», ora hanno «abiurato» dal proprio modello culturale e cominciano a vergognarsi della propria ignoranza tanto da cancellare il loro mestiere nella carta d’identità e sostituirlo con il termine generico di “studente” (Scritti corsari). È interessante riportare come Pasolini identifichi come prima trasformazione culturale la degenerazione della lingua italiana: dopo essere vissuto per secoli come lingua scritta, l’italiano conquista la dimensione parlata soltanto tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento, per rispondere ad esigenze tecniche e agli interessi aziendali. Non a caso essa si sviluppò proprio a partire dall’asse Milano-Torino, ovvero dai luoghi delle industrie e delle aziende. La nascita della lingua italiana dunque è, secondo l’intellettuale, il primo segnale di omologazione culturale dettato dalla logica aziendale. La mutazione antropologica incide anche sui borghesi che, a rigor di logica, si sono sottoproletarizzati: la cultura che essi producono, di carattere tecnico e pragmatico, infatti, ha irrigidito le facoltà intellettuali e morali conducendoli paradossalmente al degrado morale.

È intuibile, nell’analisi pasoliniana, il pericoloso legame dei mass media con il potere. La televisione, ai suoi tempi, i social, ai nostri, sono uno strumento di potere e potere essi stessi; seducono le masse e manifestano in concreto lo spirito del potere capitalista. Ne deriva un conformismo di massa in cui il particolarismo dell’individuo scompare perdendo ogni identità propria. Tutto questo è funzionale sia al conformismo politico, sia al sostegno di un mercato di massa finalizzato a incrementare i consumi.

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