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Heretic: la recensione

  • Alessandro Borlizzi
  • 7 mar
  • Tempo di lettura: 5 min

"Heretic" affascina con un inizio promettente e un cast di talento, ma si sgretola sotto il peso di una sceneggiatura debole e di una retorica ridondante. Il climax perde mordente e il finale risulta insensato, compromettendo l’impatto del film. Regia, interpretazioni e comparti tecnici solidi non bastano a riscattare un’opera che si smarrisce nelle sue stesse ambizioni.

 


Eagles Pictures porta nelle sale italiane, a partire dal 27 febbraio, la nuova pellicola prodotta da A24. Del genere thriller-horror, per la regia, sceneggiatura e soggetto di Scott Beck e Bryan Woods, con Hugh Grant, Sophie Turner, Chloe East e Topher Grace, ecco la recensione di “Heretic”.

 

Trama accattivante, sceneggiatura traballante, soprattutto nel finale


Paxton (Chloe East) e Barnes (Sophie Thatcher) sono due giovani sorelle mormone che si impegnano nella diffusione del verbo per conto della propria chiesa di rione. Durante uno dei loro pomeriggi da missionarie, le due sorelle giungono alla casa del signor Reed (Hugh Grant), iscritto nella lista di consulenza che aveva precedentemente espresso l’interesse verso la chiesa mormonica. L’uomo, di mezza età, le invita a entrare nella casa, dimostrandosi gentile e accogliente, e vestendo la maschera dell’uomo incuriosito dalle realtà ecclesiastiche alternative di cui si professa uno scarso conoscitore. Con il proseguire del “colloquio di conversione”, il signor Reed si dimostra, però, un uomo colto ed estremamente informato sulla natura delle religioni, palesando progressivamente una certa ostilità nei confronti di esse. L’uomo inizia a presentarsi come una figura misteriosa e sinistra e attira i sospetti delle ragazze. Parte così un climax di tensione e di mistero che tenterà di accompagnare lo spettatore fino al termine della pellicola, attraverso il quale tematiche controverse vengono esplorate all’interno di una messa in scena cruda e delittuosa.

Le premesse su cui si sostiene l’impalcatura generale della pellicola sono sicuramente di buona fattura. L’incipit è interessante, riesce ad accattivare proponendo delle particolarità che fin da subito contestualizzano la vicenda in un orizzonte complesso e articolato. I dialoghi appaiono credibili ed equilibrati, a tratti brillanti, sostenuti da un intento che pare voler andare oltre al semplice compito di intrattenere, ma tenta di intessere una leggera trama speculativa che ricavi dalla finzione un qualcosa di più.

L’intero film si rivela, però, essere dopo poco tempo niente di più che un castello di carte, che gli stessi costruttori si preoccupano di buttare giù ai primi sviluppi di trama. Quel “qualcosa in più” si trasforma velocemente in una banalizzazione retorica senza fine, affidata alla bocca, comunque maestra, di un Hugh Grant in buona forma. Un filosofeggiare astratto e inconcludente, corredato da una sequela senza fine di stereotipi e luoghi comuni del tema religioso che arrivano persino a infastidire, inizia a prendere spazio all’interno della pellicola, sottraendone a una narrazione che non si rivela mai incisiva. La tensione presta troppo affidamento alla mano capace dei due registi, Scott Back e Bryan Woods, che sfornano una buona regia e dirigono con efficacia tutti i comparti tecnici, ma tensione che non trova corrispondenza adeguata nell’evoluzione della vicenda. Al dialogo iniziale, che costituisce l’unico punto di rilievo dell’intera pellicola, seguono una serie di avvenimenti nel complesso godibili, ma privi di qualsiasi amabilità. In tutto questo si fanno strada i tentativi delle ragazze di sopravvivere, evitando più che le azioni fattive del signor Reed, i suoi intenti che si rivelano progressivamente sempre più minacciosi. Ad accompagnarle vi è poi l’occhio dello spettatore che, al contrario, sfrutta l’occasione per capire di più, per ricercare una verità nascosta e disinnescare la trazione del mistero.

Il tutto ricade ulteriormente nel finale, dove il tentativo di dare degna risoluzione al climax si traduce nell’atto finale di una parabola in continua discesa. La conclusione è insensata e inadeguata, fine a se stessa. La pellicola si chiude senza aggiungere nulla che possa dare senso maggiore alla vicenda, o suggerire una chiave di lettura che possa arricchire di significato gli avvenimenti. Anche la qualità dei personaggi cala drasticamente e ciò si manifesta non tanto nelle figure delle sorelle mormoni, quanto nel personaggio di Hugh Grant, che da fascinoso e losco figuro, si trasforma in una macchietta dalle azioni prive di senso. Per quanto la messa in scena si mantenga credibile per buona parte della pellicola, accompagnando e sostenendo efficacemente lo spettatore, questa viene totalmente meno in nel finale, che sfida ogni grado di sospensione del dubbio.




Interpretazioni ottime, ma Hugh Grant talvolta eccessivo


Pregevoli risultano le interpretazioni degli attori. Un cast contenuto, ridotto solo a una manciata di interpreti, ma di grande rilievo e bravura. Ottimo il lavoro di Sophie Thatcher e Chloe East, che stupiscono per la loro capacità di condensare all’interno di un’unica maschera l’apparente ingenuità e genuinità di un missionario mormone e la tagliente astuzia di ragazze dal passato non così ordinario e lineare. Sempre decisive negli scambi verbali, in particolare Sophie Tatcher, alla quale è affidato il compito di rivaleggiare in quanto a magnetismo con Hugh Grant e con il suo personaggio, dal quale deve strenuamente cercare di difendere se stessa e la propria compagna, contrastando gli attacchi retorici di uno squilibrato che tenta di attentare alla dignità della loro fede. Non sfigura neanche East che, se tenuta in riserva per la prima parte della pellicola, viene messa in condizione di sfoggiare la propria bravura nel secondo parziale, dove riesce a coniugare abilmente la tragicità, lo spaesamento e il terrore al coraggio, alla volontà di rivalsa e, in parte, anche al desiderio di vendetta. Le due attrici, in generale, si dimostrano sintonizzate e ben si sposano con l’apparato di finzione costruito dai due registi.

Qualche riserva invece per l’interpretazione di Hugh Grant. Protagonista ipnotico dei primi istanti, si trasforma gradualmente in un personaggio dall’espressività talvolta forse eccessiva. Per quanto destreggi abilmente la sceneggiatura e fornisca un interprete di spessore alle perorazioni solenni del suo personaggio, le movenze esasperate del suo volto e la gestualità che diviene a poco a poco bizzarra e macchiettistica inficiano notevolmente non solo la credibilità del suo personaggio, ma deteriorano complessivamente tutta la messa in scena. Risulta così un Grant fuori controllo, sfuggito alle, forse assenti ma doverose, limitazioni della regia.  




Retorica spicciola che infastidirebbe anche il più incallito degli anticlericali


Ombra oscura di tutta la pellicola risulta essere, infine, il filosofeggiare banalizzato e banalizzante che accompagna azioni e parole dei protagonisti. La pellicola si propone fin dall’inizio con evidenza come un’opera di attacco esplicito alle religioni. Accanto alla semplice volontà di intrattenere, il film si prefissa l’obiettivo di sollevare una riflessione, di infondere nello spettatore la volontà di interrogarsi e di porsi domande sul significato della fede, sul suo rapporto con l’uomo e sulla possibilità di stabilire una verità teologica o dottrinale. Intenzione che non solo non viene per nulla rispettata, ma una tematica così complessa e profonda viene affrontata all’insegna della retorica più semplicistica, farcita di mistificazioni, luoghi comuni ed esemplificazioni che, se talvolta risultano propedeutiche e necessarie allo sviluppo e alla giustificazione della trama e, infatti, prontamente smontate dall’intervento del personaggio della Thatcher, altre volte risultano totalmente pleonastiche, oltre che profondamente fallaci. Inutile dire che, per quanto l’impianto stesso della pellicola richiedeva che il tema religioso fosse affrontato con aria e volontà critica, ciò poteva e doveva essere fatto con consapevolezza più matura, in ogni caso evitando lo scadere in una retorica di trivialità riciclate.


In conclusione,


"Heretic" affascina con un inizio promettente e un cast di talento, ma si sgretola sotto il peso di una sceneggiatura debole e di una retorica ridondante. Il climax perde mordente e il finale risulta insensato, compromettendo l’impatto del film. Regia, interpretazioni e comparti tecnici solidi non bastano a riscattare un’opera che si smarrisce nelle sue stesse ambizioni.

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