Eutanasia e suicidio assistito: quando la scelta della morte permette di vivere a pieno la vita
- Alessandro Borlizzi
- 16 apr
- Tempo di lettura: 6 min
Nel cuore di un acceso dibattito etico, sociale e politico, l’eutanasia e il suicidio assistito emergono come temi centrali nella riflessione sulla libertà individuale, la dignità della vita e il ruolo dello Stato, mentre l’Italia resta sospesa in un limbo giuridico che alimenta incertezze e contrasti ideologici.

Il dibattito sulla compatibilità della pratica dell’eutanasia e del suicidio assistito con la nostra etica ha ultimamente trovato ampio spazio all’interno dell’opinione pubblica. I casi numerosi avvenuti negli ultimi anni hanno portato al centro delle opinioni la discussa correttezza del loro esercizio, rivelando l’intrinseca complessità dell’argomento, che pare non riuscire a trovare definitiva risoluzione se non nel campo dell’opinione. Gli esempi, da cui sorgono talvolta scandali e controversie, hanno evidenziato la necessità di praticare un’attenta e profonda riflessione, non solo per tentare di risolvere la sua ambiguità, ma anche per comprendere come mai quella di porre fine, in modo più o meno forzato, alla vita sia divenuta una necessità sempre più diffusa. La disquisizione etica e morale sulla giustizia dell’eutanasia costituisce solo una branca accessoria della ben più complessa e intricata trattazione del tema più generale del suicidio, e riflettere su di esso ci permette a sua volta di far luce sui significati più reconditi della nostra vita e, in modo collaterale, della nostra morte. Se è vero che, alla fine dei giochi, la verità non verrà trovata, ma concordata, affinché, però, si possa giungere a una risoluzione valida della questione è in ogni caso necessario intraprendere una ricerca “socratica” di questa verità, attraverso l’esercizio e lo schieramento delle nostre opinioni.
IL LIMBO GIURIDICO
La grande eterogeneità delle conclusioni a cui conducono le diverse ideologie in campo è uno degli elementi più determinanti nel rendere complicato un accordo unanime. La pratica dell’eutanasia trova, per esempio, forte osteggiamento dai movimenti di matrice cattolica e religiosa, i quali, ponendosi in posizioni di strenua difesa della vita e del suo valore, ritengono inconcepibile la possibilità di forzare il corso naturale degli eventi e obbligare un uomo a rinunciare al dono divino. A condividere tale opinione sono, più in generale, le correnti politiche di destra, conservatrici, che rivendicano l’importanza del diritto alla vita e vedono nell’eutanasia un attentato alla sua inalienabilità. Dall’altra parte si trovano generalmente le correnti della sinistra che, talvolta per opposizione deontologica alla destra, talvolta per sincera convinzione, tessono in modo sempre più esplicito apologie e panegirici in favore del diritto all’eutanasia. In questo contesto, dominato sempre più da una retorica arenata nel freno della propria inconcludenza, il nostro Paese si ritrova in un limbo spietato, privo di una regolamentazione giuridica unanime che possa dirimere definitivamente il dibattito. Se, infatti, la pratica dell’eutanasia è un esercizio vietato sul territorio nazionale, il suicidio assistito è invece attualmente disciplinato da semplici leggi regionali, che ne consentono o ne vietano la pratica in modo territorialmente limitato. Ad oggi, per esempio, è la sola regione Toscana ad autorizzare la possibilità per un uomo di porre fine alla propria esistenza per mezzo dell’autosomministrazione di farmaci sopprimenti, in quell’esercizio che passa sotto il nome di “suicidio medicalmente assistito”.
EUTANASIA E SUICIDIO ASSISTITO: TRA DIRITTI E RESPONSABILITÀ
Per quanto, infatti, le due pratiche vengano confuse, le due terminologie esprimono sfumature semantiche significative. Prima di poter analizzare con sufficiente perizia la questione, diviene necessario attenzionare con precisione che cosa si intenda per “eutanasia” e cosa per “suicidio assistito”. Sostanzialmente, entrambe le pratiche prevedono che un individuo scelga di porre consapevolmente fine alla propria esistenza per via farmacologica, spinto da malattie, menomazioni fisiche o mentali che minano in maniera più o meno significativa la qualità e la dignità della sua vita. A differenziare le due pratiche è, però, l’esecutore fattivo dell’atto: una persona esterna nel caso dell’eutanasia, l’individuo stesso, accompagnato dal supporto e dalla supervisione del personale medico, nel caso del suicidio assistito. Una diversità apparentemente irrilevante, che conduce alla medesima conclusione, ma che nasconde in realtà implicazioni morali significative nella determinazione della responsabilità dell’atto. L’eutanasia, rendendo le mani di un medico partecipi di una morte procurata, porrebbe nella sua persona la responsabilità morale della morte stessa, che potrebbe, per alcuni, essere associata, di fatto, al concorso in un omicidio. Responsabilità che a questo punto diverrebbe non solo morale, ma anche legale, e che trasformerebbe il medico in un assassino e lo costringerebbe a infrangere il giuramento di Ippocrate, che disciplina la deontologia della propria professione. Tale visione, per quanto formalmente corretta, si basa, però, su una valutazione alquanto semplicistica, che tralascia numerose sfumature e sottigliezze in grado di modificare in modo sostanziale anche l’analisi logica della questione. La conclusione che intende identificare l’eutanasia, o più in generale, una “morte procurata”, come omicidio appare evidentemente fuorviata, e fuorviante. Chi propone una simile visione rende oggetto della propria analisi unicamente l’esercizio nella sua formalità, traducendo la relazione che intercorre tra medico e “assistito”, e il rapporto di causa e conseguenza che si instaura tra l’azione del primo e la morte del secondo, con la categoria dell’omicidio. È, però, bene considerare che se alla base dell’atto stesso vi fosse l’esplicita richiesta dell’assistito, la pratica non costituirebbe nient’altro che l’esercizio del proprio diritto di disporre liberamente della propria vita. Un diritto che, prima ancora che legalmente garantito, dovrebbe essere socialmente riconosciuto come tassello fondamentale per l’espressione stessa dell’umanità del singolo, ritrovando nell’arbitrio individuale e coscienziale manifestazioni della propria libertà. Il medico, secondo questa prospettiva, assolverebbe a una funzione puramente strumentale, ponendosi come garante stesso del diritto dell’assistito. Le medesime considerazioni, da una parte e dall’altra, sono valevoli anche per la pratica del suicidio assistito.
L’ETICA DEL SUICIDIO
Non solo il campo giuridico è investito dalle maree turbolente del dibattito su tale questione. Il dubbio amletico alla base stessa delle divergenze d’opinione, che abbiamo brevemente analizzato, si caratterizza come una ben più semplice diatriba politica di schieramenti: essa è manifestazione di un paradigma ideologico ampio e complesso, che racchiude all’interno del proprio orizzonte visioni eterogenee e talvolta antitetiche della vita umana e delle sue differenti interpretazioni. Prima ancora di interrogarci sulla correttezza morale dell’eutanasia e del suicidio assistito, è necessario comprendere la natura complessa celata della volontà di un individuo di porre fine alla propria vita. Quello del suicidio è stato un tema fortemente stigmatizzato nei secoli della storia; dal pensiero greco, che si poneva nei suoi confronti con carattere ambivalente, fortemente dipendente dalle filosofie che hanno tentato di approcciarlo, si è passati all’etica cristiana che, considerando la vita umana, di fatto, un dono divino, si dimostrava talmente avversa alla pratica da profetizzare la dannazione eterna per tutti i suicidi. In ogni caso la triste consuetudine del suicidio ha accompagnato l’uomo senza mai distaccarsi significativamente dal suo cammino: non vi è stata epoca o pensiero che abbia sufficientemente esorcizzato il richiamo della morte. Proprio la morte, quasi sempre e da tutti fuggita e aborrita, sembra provocare per il suicida un richiamo particolare, un’attrazione morbosa ma al tempo stesso dolorosa, in perenne contrasto con la volontà mai esaurita di preservare se stesso e la propria vita. L’animo del suicidio è dilaniato in due componenti, due forze, che vengono a crearsi all’interno del suo animo e che lo conducono a un bivio decisionale terribile e angoscioso. Ma come si origini questa forza malevola e anomala, aliena per la maggior parte della popolazione, che porta l’uomo a rinunciare consapevolmente alla propria esistenza, è un grande interrogativo. Le papabili risposte a questa domanda sono tantissime, differenti e incredibilmente articolate, e affrontarle richiederebbe tempi e spazi dilatati che questo articolo non possiede. Più che le sue cause, però, acquisisce particolare interesse per noi l’atto stesso del suicidio e la sua adesione più o meno giustificate alle leggi della morale. Anche in tal caso risulta complicato rintracciare una verità certa e universale, che possa compendiare in sé tutte le diverse prospettive e angolazioni da cui si analizza il fenomeno, e non rimane altro che appellarsi alle sensibilità coscienziali di ognuno. Tra chi sostiene, kantianamente, che l’immoralità del suicidio scaturisca con evidenza dal fatto che, universalizzando un simile comportamento, la sopravvivenza stessa dell’umanità sarebbe messa a repentaglio, e chi, al contrario, si appella al valore universale della libertà del singolo, l’impossibilità di determinare una condotta etica univoca mostra quanto la questione si radichi nel profondo delle coscienze individuali, costringendo ognuno di noi a confrontarsi con i propri valori più intimi. In ogni caso, terrei personalmente a sottolineare come, in un contesto di estremo relativismo come quello in cui si muove tale riflessione, le pratiche dell’eutanasia e del suicidio assistito avrebbero il potere di imporsi non come semplici e atroci strumenti di morte, ma come strumenti di esercizio e simboli stessi della libertà umana più pura, e della rivendicazione personale della propria dignità. Scegliere la morte può apparire come la più disperata delle rinunce, ma può anche rivelarsi come il più alto gesto di autodeterminazione, accompagnato e supportato dalla presa di coscienza del valore e del significato intrinseco della morte stessa, di quella morte che rappresenta, in tal senso, l’ultimo e definitivo atto di vita.
In conclusione, una risoluzione definitiva del problema dovrebbe scaturire da uno sforzo collettivo e sincero, diretto verso una comprensione empatica dell’altro che possa slegarsi dai vincoli di dogmi e ideologie precostituite. Un dialogo pubblico proficuo non dovrebbe mirare a rintracciare una verità assoluta, ma a garantire un contesto di ascolto e comprensione all’interno del quale ogni scelta possa essere maturata con libertà e consapevolezza. Solo in questo modo è possibile dare valore autentico alla vita umana, e, al tempo stesso, rendere tali gesti, troppo spesso ingiustamente biasimati, genitrici di riflessioni profonde sulla condizione umana, sul dolore, sulla libertà, e, in ultima istanza, sul senso stesso del nostro vivere.
Il discorso, come hai ben argomentato, Alessandro, è molto ampio, poichè afferente lo stesso "status" di uomo, le nozioni di etica e antropologia, nonchè di filosofia dell'uomo! Io interverrei su due punti: uno medico e uno di risposte ad alcune obiezioni sul tema eutanasico.
Alcune ragioni culturali sono alla base di questo atteggiamento, la prima delle quali è il rifiuto del concetto di emergenza-trascendenza della persona umana: la morte ha un senso soltanto se, pur privando l’uomo dei beni terreni, apre la speranza verso una vita più piena. Perciò l’incapacità di dare senso alla morte porta, da un lato, ad ignorarla e a bandirla dalla coscienza e dalla cultura, dall’altro ad escluderla come criterio veritativo e valutativo dell’esistenza quotidiana e…