Eurovision Song Contest: la morte della musica?
- Alessandro Borlizzi
- 27 feb
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 13 ore fa
L’Eurovision Song Contest si configura sempre più come uno specchio della spirale di decadenza in cui la nostra società si trova immersa.

Con il concludersi della settimana sanremese - forse la più attesa dell’anno da parte del pubblico generalista italiano - l’attenzione dell’opinione pubblica si è immediatamente proiettata verso ciò che, ormai da molti anni, rappresenta il palcoscenico principe della musica europea: l’Eurovision Song Contest, il festival musicale che, per la rinnovata edizione, ritornerà nella sua terra di origine, dove tutto, nel lontano 1956, ha avuto inizio. Ad accogliere l’ambito palcoscenico sarà la città di Basilea, che dal 13 al 17 maggio, ospiterà la sessantanovesima edizione della competizione. Trentasette Paesi, europei ed extraeuropei, si sfideranno nel tentativo di eleggere la canzone migliore, la più meritevole di rappresentare la produzione artistico-musicale del Vecchio continente. O almeno, tale era la finalità originale del concorso. L’evolversi della manifestazione e il crescere della risonanza mediatica che essa generava e genera tuttora sembrano essere corrisposti a un progressivo deterioramento dei suoi intenti e a un degradarsi della propria autenticità. Se, infatti, obiettivo delle prime edizioni dell’Eurovision Song Contest, che, ricordiamo, vedeva la partecipazione di un numero limitato di Paesi, – addirittura sette nella sua prima edizione – era quello di concedere uno spazio dove culture differenti potessero confrontarsi e mettersi a paragone riportando sul palco l’apice della propria espressione artistica musicale, il fulcro centrale del concorso sembra, ormai, essersi spostato sulla sfrenata ricerca della spettacolarizzazione. Ciò a cui stiamo assistendo oggi è un fenomeno che sembra accomunare gran parte delle manifestazioni artistiche, che in modo graduale, ma sempre più evidente, stanno acquisendo la natura prima di eventi mediatici, più che di autentiche espressioni della cultura popolare. A fornire prove esplicita di questo mutamento è, in primo luogo, l’attenzione sempre maggiore che viene rivolta ai contesti di contorno che circoscrivono l’effettivo contenuto di tali eventi, appositamente costruiti per renderli appetibili a un pubblico ormai assuefatto al becero estetismo del nuovo millennio e alla continua ricerca di grandiosità che possano accattivare i propri sensi inappagati e inappagabili. In secondo luogo, è il declino qualitativo del materiale artistico, di ciò che dovrebbe costituire, in sostanza, l’oggetto attorno al quale tutto dovrebbe ruotare: le canzoni. I concorrenti degli ultimi anni, sempre meno artisti e sempre più celebrità, presentano dinnanzi al pubblico del Vecchio continente produzioni di scarso valore, che solo raramente riescono a raggiungere le vette del discreto. Immani esemplificazioni del linguaggio artistico, banalizzazioni contenutistiche prestate a comunicare un qualcosa di sempre più vago e indefinito, perlopiù portate avanti da interpreti sempre meno abili, sono tutti elementi di una canzone che dovrebbero impedirle di ergersi a effettiva rappresentante di un orizzonte storico-culturale nazionale – cosa che dovrebbero, appunto, fare le canzoni sul palco dell’Eurovision – o quantomeno dovrebbero spingere la critica e il pubblico a giudicare tale opera con onestà e a riconoscerne la scarsità artistica, se non, addirittura, a suscitarne l’indignazione. Eppure, nel panorama musicale mondiale troviamo una diffusione sempre maggiore di produzioni musicali caratterizzate da tale pochezza, anche a causa dello spazio che gli eventi come l’Eurovision Song Contest concedono loro, catalizzandone il successo e la diffusione nella società di massa. È questa l’estrema conseguenza del processo di mercificazione dell’arte, che da oggettivazione sensibile dello spirito è stata trasformata in un prodotto vincolato alle leggi della domanda e dell’offerta, che non si preoccupa più di adempiere al proprio compito, ovvero esprimere e comunicare ciò che di più recondito si trova nell’animo dell’uomo, ma si accontenta di mettersi a buon mercato. Chiariamoci: la buona musica e, più in generale, la buona arte non sono scomparse; anzi, il moltiplicarsi dei mezzi e delle possibilità a disposizioni degli artisti ha contribuito alla nascita di nuova e, talvolta, anche di migliore. Il problema è che essa rimane, ancor più che nel passato, relegata nei contesti più elitari, lontana dalla conoscenza del grande pubblico che, assopito, sempre meno si avventura alla ricerca della vera bellezza. Il clima di indifferenza in cui questa arte underground viene confinata, a favore dell’arte mainstream portata, invece, alla ribalta dai grandi eventi e dalle bolle mediatiche che ne scaturiscono, si pone, inoltre, alla base di un circolo vizioso che lentamente compromette e danneggia le capacità di giudizio della società di massa. L’esposizione continua a questa forma di musica e ai suoi canoni semplicistici non fa altro che acuire l’aderenza tra il gusto collettivo e le esigenze di mercato delle grandi produzioni, contribuendo a rinnovare l’interesse delle case discografiche per i prodotti di scarso valore. In questo scenario, l’Eurovision Song Contest si configura sempre più come uno specchio della spirale di decadenza in cui la nostra società si trova immersa. Tuttavia, sarebbe sbagliato considerarlo un fenomeno isolato, o condannarlo senza appello. Piuttosto dovrebbe costituire l’occasione per interrogarsi sullo stato dell’arte e della musica e sul valore che l’uomo dell’oggi riesce ad attribuire loro, incapace di ritrovare in essa la via per scorgere la verità della bellezza. In ogni caso, l’Eurovision e i loro affini continueranno ad attrarre e affascinare milioni di spettatori. Lungi dal volerli condannare, è bene però sottolineare le responsabilità che essi hanno nel delineare le linee di condotta della produzione musicale e artistica in generale. Forse, la vera sfida di oggi è proprio quella di educare lo spettatore a cercare, riconoscere e valorizzare la bellezza intrinseca e autentica dell’arte, e arrivare a comprendere come dietro le luci abbaglianti e appariscenti di un palco possano celarsi ombre sinistre che minacciano e attentano, subdolamente, l’identità e l’integrità della nostra umanità.
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